Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

sabato 16 marzo 2024


Animam meam convertit

 

 

Il Signore «converte l’anima mia» (Sal 22, 3). La Vulgata, in ciò concordando con i LXX, traduce in modo esatto la forma causativa del verbo ebraico šub, la quale significa letteralmente fa tornare, ovvero volge indietro nel giusto senso di marcia, come espresso dal verbo greco epistréphō. Se il significato di una parola fa difficoltà all’interprete, non è ammissibile modificarlo arbitrariamente per congettura in modo da renderlo coerente con il senso da lui supposto. La traduzione consacrata dall’uso (rinfranca l’anima mia) non ha alcuna base testuale, ma risponde semplicemente al desiderio di armonizzare la frase in questione con quanto precede: «In pascoli verdeggianti mi ha collocato, ad acqua di ristoro mi ha condotto» (ibid., vv. 1-2). La traduzione letterale, tuttavia, è perfettamente coerente con le parole immediatamente seguenti (mi ha guidato su sentieri di giustizia; ibid., v. 3), nelle quali si svela il senso reale delle metafore fino allora impiegate.

Inversione di marcia

Tale movimento di riorientazione è quello richiesto da ogni conversione, sia da quella fondamentale, che conduce l’anima dal peccato alla grazia, sia da quella ulteriore, che la sospinge alla ricerca della perfezione. Anche chi si è convertito, infatti, pur avendo proscritto il peccato grave, è costantemente tentato di ergersi a misura di tutte le cose, comprese quelle di Dio. I progressi ottenuti nella condotta esterna alimentano spesso una sottile forma di superbia che, non individuata e corretta per tempo, rischia di deviare il cammino sotto apparenza di bene. Per questa ragione la seconda conversione si deve concentrare sull’acquisizione dell’umiltà, senza la quale il grado di bene raggiunto diverrebbe causa di rovina spirituale. Oltre alla serena accettazione delle umiliazioni procurate dal prossimo e all’attiva mortificazione dell’orgoglio, un efficace mezzo per crescere in questa virtù, condizione imprescindibile della carità e, quindi, di tutte le virtù autentiche, è la frequente meditazione su di essa e l’incessante richiesta rivolta al Solo che possa donarla.

Chi cerca umilmente la verità nelle questioni di fede dibattute si rende conto di aver bisogno, ben più che di una vasta erudizione o di solidi argomenti, di puntuali illuminazioni interiori concesse dallo Spirito Santo. Non si intende certo con ciò sminuire l’importanza di uno studio serio e della conduzione di ragionamenti che reggano alla critica, ma mostrare che, nel campo della conoscenza di ciò che supera l’intelletto umano, non si può fare a meno di uno specifico aiuto dall’alto. Oggetto di indagine, infatti, non sono qui le realtà terrene, bensì Dio stesso e il Suo agire nella storia; perciò la Chiesa ne ha sempre riservato la trattazione a quei suoi membri che godono di una grazia speciale in quanto insigniti dell’Ordine Sacro. La pretesa di disquisirne con mezzi meramente umani si rivela una velata forma di naturalismo intellettualistico, in quanto non tiene conto dell’assoluta necessità della grazia di stato connessa al munus docendi, detenuto esclusivamente da chi è ordinato e gode di una posizione canonica regolare in seno alla Chiesa Cattolica.

Luminoso esempio

Questa consapevolezza non è espressione di una larvata forma di tradizionalismo, incoerente con le critiche ad esso indirizzate, ma scaturisce proprio dall’incessante processo di conversione, nel quale l’umiltà si sviluppa di pari passo con il dono del timor di Dio, portando l’anima a riconoscere la pura evidenza del reale e ad adeguarvisi prontamente. Dato che non detengo la pienezza del sacerdozio, ho deciso di rinunciare ad esprimere opinioni personali sulle questioni controverse e di limitarmi a riferire quanto già asserito da chi ha maggiore autorità. Nonostante l’abissale distanza di scienza e di santità, oso prendere a modello san Tommaso d’Aquino, che non scriveva né parlava mai prima di aver pregato (nonché, per comprendere i passi più difficili della Scrittura, pure digiunato), così da poter candidamente confessare al segretario Reginaldo di aver conseguito il suo sapere non tanto con lo studio e la fatica, quanto per ispirazione divina, mostrando in tal modo la necessità e il ruolo della grazia nella cura delle discipline teologiche.

Avendo costantemente ricusato l’elevazione alla cattedra arcivescovile di Napoli, rimase semplice sacerdote per tutta la vita; ciò non gli impedì tuttavia di compensare l’inferiore grazia di stato con un’eccelsa santità di vita. In particolare brillò in lui la virtù della castità, che gli ha meritato il titolo di Doctor Angelicus e non è estranea al retto sviluppo della sua intelligenza prodigiosa. Ogni dono di natura, infatti, per quanto spiccato e capace di risultati sorprendenti, può elevarsi a certi livelli solo in chi è profondamente unito a Dio e interiormente unificato, condizione irraggiungibile senza la purezza della mente, del cuore e del corpo. Non per nulla i servitori di Lucifero hanno dispiegato ogni mezzo a loro disposizione per sradicare l’innocenza di bambini e adolescenti, così che la loro mente si ripieghi sul mero godimento fisico e si renda inabile a cogliere le realtà dello spirito. La vera tragedia del nostro tempo è che gran parte della gente non riesce più nemmeno a concepire l’esistenza dell’anima e la trascendenza del divino, assorbita com’è dalla materia.

Senza la castità, soprattutto, è impossibile sia ricevere la luce soprannaturale dei doni di intelletto e di scienza sia gustare la verità con quello di sapienza. San Tommaso aveva certamente letto tutta la Bibbia, i Padri latini e quelli greci disponibili in traduzione, le opere di Aristotele e di altri filosofi antichi; tutto questo, però, sarebbe stato motivo di orgoglio e non avrebbe prodotto i risultati che conosciamo, senza la grazia di quell’assoluta purezza che meritò a vent’anni, quando, rinchiuso dai fratelli nel tentativo di convincerlo a rinunciare alla vocazione, respinse con un tizzone ardente la ragazza lasciva introdotta nella sua stanza al fine di corromperlo. Secondo la testimonianza resa dal confessore al processo di canonizzazione, in età matura egli aveva conservato il candore e la semplicità di un bambino di cinque anni: che schiaffo morale per i sedicenti cattolici “adulti”, che spesso si voltolano nel fango e pretendono di legittimare i propri abominevoli vizi!

Direzione da seguire

I Santi, con il solo esempio, costituiscono un rimprovero e uno sprone a quanti non hanno ancora effettuato la prima conversione con una sincera ed efficace rinuncia al peccato; anche a chi è già in cammino verso la perfezione cristiana, nondimeno, mostrano concretamente la via da percorrere in modo da giungere alla mèta. È pur vero che le nostre facoltà sono indebolite per conseguenza del peccato originale, ma la grazia, nella misura in cui l’accogliamo e cooperiamo con essa, le purifica e potenzia in modo che possiamo superare i limiti della nostra condizione. Ci conforta molto trovare condensate le osservazioni fin qui esposte nell’insegnamento di un pontefice che non fu tomista, ma condivideva con l’Aquinate la limpidezza di mente e la purezza di cuore: «Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate, trasformate ed elevate dalla Grazia divina» (Benedetto XVI, Udienza generale del 16 Giugno 2010). «Parlando dei Sacramenti, san Tommaso si sofferma in modo particolare sul Mistero dell’Eucaristia, per il quale ebbe una grandissima devozione, al punto che, secondo gli antichi biografi, era solito accostare il suo capo al Tabernacolo, come per sentir palpitare il Cuore divino e umano di Gesù» (Idem, Udienza generale del 23 Giugno 2010).


sabato 9 marzo 2024

 

Guerra o  pace?

 

 

Nunc autem repulisti et confudisti nos; et non egredieris, Deus, in virtutibus nostris (Sal 43, 10).

«Ora invece ci hai respinti e svergognati e più non uscirai, o Dio, con le nostre schiere». Dopo aver ricordato le esaltanti vittorie del passato, il Salmista si domanda sconsolato come mai il Signore sia diventato ostile al Suo popolo abbandonandolo alla prepotenza dei nemici, pur non essendosi esso dimostrato infedele verso di Lui; ciononostante la memoria dell’intervento divino nella conquista della Terra Santa alimenta una fiduciosa invocazione, che sostiene gli israeliti affranti nella bufera della persecuzione: «Sorgi, Signore, soccorrici e riscattaci per amore del tuo nome!» (Sal 43, 26). Queste parole ispirate sono continuamente ripetute nell’Ufficio Divino della Quaresima: Exsurge, Christe, adiuva nos, et libera nos propter nomen tuum. Se, per grazia, siamo nel numero di coloro che sono rimasti fedeli alla Verità, possiamo legittimamente pregare così; altrimenti dobbiamo con cuore contrito ammettere: «Abbiamo peccato come i nostri padri, operato ingiustamente, commesso iniquità» (Gdt 7, 19; Sal 105, 6).

Attualità della parola divina

Piuttosto che ricercare nella Sacra Scrittura predizioni materiali di avvenimenti contemporanei o di altre contingenze storiche, è proprio dell’uomo spirituale lasciarsi da essa plasmare interiormente ed educare moralmente fino a giungere, nella sua quotidiana meditazione, ad assimilarla come chiave di comprensione del presente che abiliti la mente a vedere il futuro secondo i disegni di Dio, ossia con una capacità di penetrazione soprannaturale anziché sul piano della mera successione di eventi. Le società dell’opulenza sono ben lontane dal riconoscere gli abominevoli e innumerevoli peccati con cui da decenni attirano su di sé l’ira divina, ma verrà presto il giorno in cui saranno costrette a confessare: Peccavimus cum patribus nostris; iniuste egimus, iniquitatem fecimus. Nella storia di Giuditta tale realistica ammissione è conseguenza dell’assedio della città di Betulia da parte degli assiri, il cui generale, Oloferne, ha tagliato l’acquedotto che la rifornisce e fa sorvegliare le fonti esterne alle mura. Quale rapporto c’è con l’attualità politica?

I Paesi dell’Unione Europea membri dell’Alleanza Atlantica, succubi come sono degli Stati Uniti, si stan lasciando trascinare nella follia di una guerra aperta contro la Russia. Il conflitto è già in corso da due anni, benché non dichiarato: di fatto, il massiccio invio di armamenti e di militari spacciati come “consiglieri” e “addestratori”, pur violando spudoratamente il diritto internazionale e le carte costituzionali di Nazioni come la nostra, prosegue ininterrotto con un dispendio di risorse che non ha precedenti. Di questo passo, i bilanci di Stati come l’Italia, la Francia, la Germania, la Polonia e la Gran Bretagna saranno risucchiati in una voragine finanziaria senza fondo: inimmaginabili sono le cifre che stanno sperperando, sulla pelle dei contribuenti, per sostenere un Paese che non è legato ad essi da alcun patto di alleanza e sta inesorabilmente perdendo. Ben presto potremmo ritrovarci a non sapere di che nutrirci e riscaldarci, come se la guerra fosse da noi e non a migliaia di chilometri di distanza… a meno che non ci sia un rinsavimento.

Tale eventualità sembra però ben lontana dalla mente dei fantocci e degli psicopatici che governano molti Paesi europei: che sia per costrizione o per convinzione, essi non fanno altro che ottemperare pedissequamente ai diktat di Washington (o, meglio, dell’oligarchia finanziaria che la dirige), senza differenza alcuna tra “destra” e “sinistra”. L’impoverimento dell’Europa, del resto, sembra proprio voluto dagli Stati Uniti come unica possibilità di salvare la propria economia, votata all’implosione: il sogno americano è un’illusione che non può perdurare in eterno; non si può vivere per sempre in un sistema di consumi caratterizzato dall’eccesso e dallo spreco, assicurati  solo dallo sfruttamento predatorio di altri territori. Se poi si aggiunge la delocalizzazione dell’industria occidentale in Cina, vien da domandarsi se l’alta finanza, nei suoi occulti piani, non persegua davvero un reset generale che rimetta tutto in gioco e permetta l’instaurazione di un regime mondiale che sorga dalle ceneri del sistema attuale e faccia rimpiangere i mali presenti.

Sguardo realistico

Comunque sia, pare certo che l’Europa non sia in grado sostenere per più di qualche settimana una guerra diretta con la Federazione Russa. Il severo risparmio di munizioni praticato nel pattugliamento del Mar Rosso dimostra come la folle politica di sostegno all’Ucraina ci abbia militarmente indeboliti, per non parlare della difficoltà di reclutare uomini e della fuga del personale tecnico. Più in generale, popolazioni che da ottant’anni non sperimentano un conflitto sul proprio suolo sono assolutamente impreparate a un’eventualità del genere; inoltre quanti uomini – e donne, vista la parità dei sessi – sono oggi in grado di sopportare la disciplina bellica con i sacrifici che comporta, rammolliti come sono dall’eccessivo benessere? Quanti han preferito minarsi la salute soltanto per poter viaggiare e frequentare i locali? Quanti hanno il coraggio di mettere a repentaglio la propria vita in una battaglia in campo aperto, dopo aver ceduto allo spauracchio di un virus artificiale? Sono tutte domande che governanti ragionevoli si porrebbero prima di lanciarsi in roboanti dichiarazioni.

D’altra parte la Provvidenza si serve anche di queste cause seconde per castigare gli uomini accecati dalla superbia e sprofondati in colpe inaudite. I francesi festeggiano l’inserimento nella Costituzione del cosiddetto diritto all’aborto, cosa che consentirà di varare leggi che penalizzino ogni forma di difesa della vita umana fin dal concepimento; i parlamentari riuniti a Versailles hanno approvato la decisione con una maggioranza di nove su dieci, forse affrettandosi per paura che l’esercito russo entri di nuovo a Parigi come nel 1814. Prima di loro potrebbe toccare ai berlinesi, che ne hanno certo un ricordo più fresco. E a noi? Cosa potrebbe capitare ancora alla nostra povera Italia, il cui territorio è costellato di basi americane? Dovremo forse ripetere ancora: «Ora ci hai respinti e svergognati e più non uscirai, o Dio, con le nostre schiere»? Oppure riusciremo ancora una volta a cavarcela grazie all’ennesimo voltafaccia dell’ultimo momento? Non sarebbe certo la soluzione più onorevole, vista la lealtà dei russi nei nostri confronti e il loro amore per la nostra Patria, ammesso che sia possibile nell’odierna situazione geopolitica.

Un raggio di speranza

Tutti davano per impossibile che la proposta di legge di iniziativa popolare denominata Un cuore che batte approdasse alla discussione in aula; invece, dopo aver totalizzato quasi centodiecimila firme a sostegno (contando anche quelle inviate dai Comuni dopo la scadenza del termine), essa è stata assegnata a due commissioni della Camera dei Deputati, accompagnata da un’ottima relazione di presentazione. Non vogliamo ovviamente farci facili illusioni, tenuto conto delle dichiarazioni elogiative di gran parte dei capi politici riguardo alla legge che ha legalizzato l’aborto; tuttavia un risultato così sorprendente e insperato ci autorizza a continuare a confidare nella Provvidenza, senza per questo venir meno nell’impegno. Perciò siete tutti spronati a offrire la novena a san Giuseppe perché sia approvata la modifica proposta. Il grande Patriarca, che salvò Gesù bambino dalla morte e gli consentì di arrivare all’età adulta, ci ha fornito un aiuto straordinario; non smettiamo dunque di invocarlo, se desideriamo che per il nostro Paese siano attenuati gli orrori di una guerra: ridurre lo sterminio dei propri figli sarebbe un importante frutto di conversione e occasione di merito.


https://crociatasangiuseppe.blogspot.com/p/solenne-novena-san-giuseppe-pernove.html

https://www.oraetlaboraindifesadellavita.org/un-cuore-che-batte-verra-discusso-in-parlamento/


sabato 2 marzo 2024


Crisi d’identità

 

 

Nel mondo contemporaneo le istituzioni, almeno in molti casi, hanno smesso di funzionare ognuna per il fine proprio e vengono usate in vista del fine opposto. I legislatori e i governanti non operano generalmente in vista del bene comune, bensì in funzione di interessi particolari; gli onesti cittadini sono sistematicamente vessati con criteri illegittimi e limitati nell’esercizio di diritti fondamentali, mentre alcune minoranze godono di ogni privilegio in spregio a tutte le norme. I magistrati, spesso, applicano la legge in modo severissimo con i connazionali e sono estremamente indulgenti verso i clandestini che si sono macchiati di pur gravissimi delitti. Le forze dell’ordine sembrano cieche o impotenti di fronte a crimini lampanti, ma si sono rivelate efficientissime, in questi ultimi anni, nel far osservare assurdi divieti con conseguenze disastrose. Tanti medici, dopo aver pedissequamente applicato protocolli dannosi per curare una pretesa pandemia, hanno imposto una falsa vaccinazione che sta provocando un’ecatombe senza precedenti.

I giornalisti, anziché cercare e far conoscere la verità dei fatti, sono quasi tutti ciechi e muti riguardo alla strage programmata, occupati come sono a divulgare menzogne oppure dati parziali e fuorvianti. Gli insegnanti, incaricati di trasmettere la vera cultura al fine di formare persone capaci di riflettere ed esercitare il senso critico, imbottiscono la testa di giovani e bambini delle ideologie perverse che l’Unione Europea e le Nazioni Unite impongono ai governi, coadiuvati in ciò da preti, frati e suore deformati da decenni di indottrinamento pseudoteologico e pseudospirituale, ridotti a ripetitori della sciocca propaganda di regime, refrattari a qualunque tentativo di farli ragionare sulle evidenti derive sociali ed ecclesiali. I vescovi – noi non dimentichiamo – hanno imposto la serrata delle chiese e si sono dileguati con tutto il loro clero proprio nel momento in cui, adempiendo così il proprio dovere di Pastori, avrebbero dovuto resistere all’inaudita ingerenza dello Stato e difendere il proprio gregge dall’inedito attacco portatogli nell’anima e nel corpo.

Agire ed essere

Dato che l’essere si perfeziona nell’agire e, viceversa, l’agire porta a compimento l’essere, a forza di agire in senso contrario al proprio essere si finisce col non sapere più cosa si è, per quale scopo si sta al mondo e che si deve fare. È il dato ontologico, vale a dire l’essere, a determinare l’imperativo morale, ossia il dover essere; ciò che sei come uomo e come cristiano ti impone di comportarti in maniera conforme alla tua natura e al tuo stato. Se invece operi costantemente in un modo che non corrisponde a quel che sei, a lungo andare vai in crisi: non puoi certo perdere la tua identità, ma non riesci più ad averne consapevolezza, assorbito in pensieri e attività che non sono degni né della tua ragione né della tua libera volontà. La peggior forma di dominio degli uomini nonché di abuso delle coscienze è quella che li porta a vivere al di sotto delle possibilità inerenti al loro essere, come bestie irragionevoli e addestrabili a piacimento. Così è successo che la gente sia corsa a farsi avvelenare con tetragona determinazione ed euforica baldanza.

Una volta ottenuto il controllo mentale delle masse con la manipolazione collettiva, gli individui ancora lucidi si ritrovano soli contro il mondo intero, additati alla pubblica esecrazione come pazzi criminali, come gente accecata da assurde convinzioni antiscientifiche che non si cura della morte altrui. Tale stato di follia, in realtà, è caratteristico di quanti li accusano ed emarginano: è chi basa le proprie scelte vitali su dati non verificati o palesemente falsi a dimostrarsi incapace di raziocinio. Un insegnamento scolastico scadente e l’onnipresente propaganda veicolata dai mezzi di comunicazione, d’altronde, mirano appunto a inibire lo sviluppo del senso critico e a rendere le menti dipendenti da qualunque fonte di informazione; qualsiasi sciocchezza trovata nella Rete assurge a verità assoluta per il solo fatto di esservi pubblicata, senza alcuna considerazione per le competenze dell’autore né per la fondatezza di ciò che scrive. Gli unici ad essere respinti a priori, senza alcun esame delle loro affermazioni, sono coloro che si oppongono alla narrazione dominante.

Conoscere e volere

La conoscenza e la volontà si influenzano a vicenda: da una parte, non puoi volere qualcosa che non sai; dall’altra, per sapere qualcosa devi voler fare quanto è necessario per saperlo. Ora, il fatto stesso che tu voglia conoscere una cosa presuppone il fondamentale orientamento dell’intelletto alla verità, che è l’intelligibilità dell’essere: tu vuoi che il processo della tua conoscenza pervenga a conclusioni conformi alla realtà, non a conclusioni errate; altrimenti non ha senso sforzarsi di acquisire questa o quella conoscenza. Anche senza teorizzarlo o rendersene sempre conto, la tua mente sa che l’attività conoscitiva la mette a contatto con il reale e le permette di interagire con esso, non con un modello o una rappresentazione. Se la fisica contemporanea è costruita su modelli matematici perché molti dei suoi oggetti non sono osservabili, essi funzionano nella misura in cui riproducono l’ordine oggettivo inerente ai fenomeni studiati; in questo caso le applicazioni tecnologiche ottengono i risultati sperati e questi ultimi sono sicuri, che si tratti della tenuta di un ponte o del portatile di casa.

Se quanto esposto vale in rapporto a oggetti particolari, a maggior ragione vale in rapporto all’identità dell’uomo e al fine della sua esistenza. Se non sai chi sei e perché stai al mondo, tutto il tuo agire, in qualunque ambito, rimane privo di senso e di scopo; di conseguenza perdi anche la percezione della tua identità di creatura ragionevole e libera. A questo punto il sistema può fare di te ciò che gli pare; è per questo che, per mezzo della falsa scienza, inculca nei cervelli l’idea menzognera che l’essere umano non sia altro che un animale più evoluto, riducibile alla materia e privo di un orizzonte che superi l’immanenza. In tal modo la spontanea consapevolezza della propria identità viene soffocata e, di conseguenza, risulta impossibile conoscere sia lo scopo dell’agire sia i modi e i mezzi adeguati per ottenerlo; l’esistenza si riduce a sopravvivenza in un mondo ostile, coartata dalle mille angherie e prevaricazioni del potere, alleviata unicamente da qualche piacere materiale di basso livello ancora concesso, ma comune alle bestie irragionevoli.

Ragionare e liberarsi

L’unica via d’uscita da questo incubo distopico, imbastito con cura, sul lungo periodo, dalle società segrete che dominano il mondo, sta nel riprendere coscienza della propria identità e nel riscoprire le esigenze che ne discendono: l’identità comune di esseri umani e quella specifica, connessa allo stato di ognuno. Chi ha resistito alle inaccettabili imposizioni del peggiore sistema totalitario della storia, pur mascherato da democrazia, ha potuto farlo in virtù di una percezione forte e chiara della propria identità e di una lucida deduzione delle scelte ad essa conformi. Chi non è religioso ne ha certamente un’idea parziale, ma ha comunque applicato con coraggio la verità di cui disponeva come persona umana. Chi ha la fede, com’è evidente, ha avuto un ulteriore vantaggio, a meno che non abbia reso questa grazia inefficace per mancanza di retto ragionamento; la grazia, infatti, presuppone la natura e la perfeziona. Molti cattolici hanno sposato la propaganda del regime perché, o per limitatezza o per interesse, non hanno premesso alla decisione una seria e onesta indagine sulla realtà.

Non intendiamo con ciò giudicare quanti hanno ceduto in buona fede o per necessità; anzi, coloro che sono stati costretti a farlo e ne stanno patendo le conseguenze meritano tutto il rispetto e una carità affettuosa e solidale. Ciò che troviamo urgente, nondimeno, è che ognuno si fermi a riflettere su ciò che è come persona e sulle conseguenze di un agire che non sia normato dall’essere. Coloro che con eccessiva disinvoltura, spesso congiunta ad arrogante ostinazione, han sentenziato circa la liceità del ricorso a un prodotto sperimentale la cui efficacia non era affatto provata e dei cui effetti non si sapeva nulla, devono esaminarsi la coscienza e chiedere perdono del proprio errore a Dio e al prossimo. Altrettanto deve fare chiunque abbia collaborato in qualsiasi modo alla realizzazione del peggiore crimine della storia umana, così da potervi rimediare, nella misura del possibile, mediante l’adempimento di quei doveri che scaturiscono dal suo stato e sono conformi alla sua identità. Non è possibile una riconciliazione che prescinda dall’ammissione delle colpe, dal sincero pentimento e da una richiesta di perdono unita ad almeno un tentativo di riparazione.


sabato 24 febbraio 2024


Alla ricerca del culto perduto / 3

 

 

Tu benedices iusto (Tu benedirai il giusto; Sal 5, 13).

Mentre si recita attentamente l’Ufficio Divino, può capitare che un versetto pronunciato centinaia di volte sprigioni inaspettatamente una luce originale in rapporto all’attualità ecclesiale. Poiché la Sacra Scrittura è ispirata da Dio, non c’è in essa nulla di incoerente; alla lettura spirituale, anzi, tutto rivela un ordine e una coesione mirabili. Il Signore – afferma il Salmista – non benedice se non i giusti, gli unici che siano suscettibili di esser benedetti; il Sommo Bene, infatti, non può comunicarsi a chi si è volontariamente posto in una disposizione contraria. La proposizione messa in risalto conclude una riflessione sulla situazione dei malvagi di fronte a Colui che ne aborrisce le scelte: «Al mattino starò alla tua presenza e vedrò che tu non sei un Dio che voglia l’iniquità, così che il maligno non abiterà presso di te, né persisteranno gli ingiusti davanti ai tuoi occhi. Odi quanti operano l’iniquità; rovinerai quanti proferiscono menzogna. Il Signore detesta l’uomo sanguinario e ingannatore» (Sal 5, 5-7).

Impossibili benedizioni

Questa evidente certezza non fa altro che confermarsi e precisarsi laddove si consideri la natura della fede. Essa consiste nell’adesione dell’intelletto, mosso dalla volontà sotto l’influsso della grazia, alla Rivelazione divina, la quale contiene non soltanto verità su Dio e sull’uomo, ma anche norme che consentano al secondo di vivere in armonia col primo. Lo scopo della Rivelazione, infatti, è stabilire una relazione di amicizia tra il Creatore e la creatura, cosa che esige evidentemente la sottomissione dell’una all’Altro. L’uomo, essendosi integralmente ricevuto da Dio e tendendo consapevolmente a Lui come al proprio fine ultimo, non può realizzare la propria vocazione se non mediante l’amorosa obbedienza a Colui che per pura generosità gli ha dato l’essere e la grazia in vista della gloria. Una relativa autonomia consiste per lui nella capacità di determinare liberamente le sue scelte in funzione del fine, non certo di individuare il fine stesso e il modo di giungervi.

Le benedizioni sono sacramentali, ossia riti istituiti dalla Chiesa che, per una certa somiglianza con i Sacramenti, ottengono effetti soprattutto spirituali (ma non solo) che dispongono l’anima a ricevere la grazia santificante o a farla fruttificare. Mentre i Sacramenti, dal punto di vista della sola validità, producono infallibilmente l’effetto proprio di ciascuno con la semplice esecuzione del rito previsto (ex opere operato), richiedendo l’adesione interiore ai soli fini della fruttuosità, i sacramentali sono efficaci in base alla fede e alle disposizioni sia di chi li amministra sia di chi ne beneficia (ex opere operantis). Poiché la fede, come appena visto, include necessariamente scelte di vita corrispondenti, è impossibile che una benedizione abbia effetto su chi vive in modo ad essa contrario, a meno che non ne sia pentito e non stia facendo il possibile per uscire dalla sua situazione di peccato; qualora quest’ultima sia pubblica, una benedizione costituisce un intollerabile scandalo.

Decomposizione della Liturgia

Chi si oppone al rito tradizionale lo fa mosso da una concezione della Liturgia che non corrisponde alla sua realtà oggettiva, bensì alla sua visione ideologica, artificiosa e storicistica. L’aggiornamento della dottrina e del culto, con il quale si è cercato di legittimare la rivoluzione conciliare, esprime di fatto un tentativo di reinterpretare il cristianesimo in chiave antropocentrica. Il fondamento di esso è la contraddittoria (e per ciò stesso assurda) pretesa, esplicitamente dichiarata nel discorso di chiusura del Vaticano II, di conciliare il culto del Dio che si è fatto uomo con quello dell’uomo che si fa dio. Le radici di tale prometeica ribellione affondano nel pensiero di quegli umanisti che, non a caso, si sentirono chiamati a tradurre (e quindi praticare) il Corpus Hermeticum, vera e propria summa della stregoneria egizia. L’accanita difesa della nuova Messa, inscindibile dall’odio per quella antica, puzza effettivamente di luciferino e di pratiche occulte.

Pretendere peraltro di reprimere abusi in un contesto intellettuale e operativo strutturalmente soggetto a continua evoluzione è quanto meno risibile: una volta demoliti i fondamenti e rimosse le pietre di confine, a che cosa ci si può ancora appellare per esigere l’osservanza delle norme, se oltretutto si emette non un testo legislativo, ma una semplice nota? Se i ministri che alterano i riti prescritti fino a renderli invalidi non vengono sanzionati, che cosa li fermerà? Essi sono fermamente convinti, in base alle loro idee, di agire in modo lodevole per il bene dei fedeli e della Chiesa; nella loro mente il concetto di validità è del tutto superato a vantaggio dell’efficacia pastorale, la quale, benché solo presunta, per loro sussiste per il semplice fatto che l’hanno pensata. Tale idealistica prevalenza del pensiero sul reale, d’altronde, è in perfetta continuità con i princìpi che hanno guidato la cosiddetta “riforma” liturgica: può forse la rivoluzione cristallizzarsi in una forma definitiva?

La propensione a trasformare la Liturgia in campo di incessanti sperimentazioni dettate da opinioni strampalate non poteva non sfociare nella decisione di impartire “benedizioni” (del tutto inefficaci, come appena visto) anche a chi vive in peccato mortale manifesto. Si osserverà che questo nasconde in realtà la volontà di legittimare il vizio di chi legifera, ma ciò non toglie che l’effetto di interventi del genere, oltre allo scandalo immediato, è a lungo termine una deformazione mentale che conduce a considerare il culto un fatto completamente arbitrario, privo di consistenza propria, soggetto al puro arbitrio di chi se ne occupa e ridotto a veicolo di propaganda ideologica. Quel che è peggio, quanto ai metodi, è la perversione delle giovani coscienze di seminaristi, frati e suore che, a causa dei loro studi e della “formazione” ricevuta, perdono quel po’ di fede e buon senso che avevano all’inizio e, per mezzo di una sottile quanto pervasiva manipolazione mentale, sono violentati nell’anima (oltre che, spesso, anche nel corpo).

Eredità per il futuro

Molti di noi hanno avuto la grazia di conoscere, in gioventù, qualche anziano sacerdote formato alla vecchia maniera: animato da fede robusta e serena, dotato di sano senso pratico e pastorale, mosso da bontà disinteressata e concreta, pieno di attenzione discreta ed efficace ai bisogni altrui, dolce e compassionevole verso ogni umana miseria, affabile e scherzoso anche nelle prove, mite e magnanimo perfino con gli avversari, solido come una roccia e delicato come una madre, capace di incessante zelo e abnegazione fino all’eroismo, ma senza spettacolarità né vittimismo, accurato nel culto senza essere maniaco di pizzi e merletti. In lui non si cercava l’oratore brillante o l’intrattenitore di successo, ma una parola amica al momento giusto, un consiglio sapiente nelle difficoltà, una mano che sollevasse dalla malattia o asciugasse le lacrime, la grazia di un’assoluzione amministrata dopo aver suscitato sincero pentimento, il gesto sacro che preparasse all’ultimo passaggio… in una parola, la presenza di Gesù perpetuata sulla terra.

Da dove scaturiva tutto questo? Dalla completa e definitiva rinuncia a se stesso e ai propri comodi, appresa con un’ascesi semplice e soda; dall’insegnamento delle virtù sacerdotali e religiose, impartito con dovizia di esempi tratti dalla vita dei Santi, immensa famiglia nella quale si sentiva a casa; dalla crocifiggente recitazione del Breviario con tutte le letture patristiche, così ricche di umanità e dottrina; dalla meditazione della Scrittura letta nella Vulgata; dalla contemplazione, coi calli alle ginocchia e la corona sempre in mano, dei divini misteri gustati nel Rosario; dal frequente colloquio col Prigioniero del tabernacolo; dal quotidiano associarsi all’immolazione della Vittima pura, santa e immacolata; dal continuo contatto con i problemi della povera gente, illuminato da un’incrollabile fiducia nella potenza della grazia e da un’intima familiarità con le imprevedibili vie della Provvidenza; da una sincera e profonda solidarietà con gli uomini, debitori come lui al Redentore. La sua carità troverebbe certo la parola e i gesti più adatti anche con gli odierni peccatori, talmente smarriti da non saper più neppure riconoscere il proprio peccato, ma li benedirebbe soltanto dopo averli riportati a Dio, fonte di ogni benedizione. Questo è vero amore.


sabato 17 febbraio 2024

 

Alla ricerca del culto perduto / 2

 

 

O uomo, se vuoi godere della libertà, infila il tuo collo nella sua catena e i tuoi piedi nei suoi ceppi (cf. Sir 6, 25 Vulg.). Non c’è gioia più grande della libertà, ma non potrai goderla se non piegherai il collo della superbia alla catena dell’umiltà e non chiuderai i piedi degli affetti carnali nei ceppi della mortificazione (sant’Antonio di Padova, Sermone per la XV Domenica dopo Pentecoste, I, 4).

Citando a memoria un testo sapienziale dell’Antico Testamento, il grande Dottore fattosi piccolo al seguito del Poverello d’Assisi enuncia un principio fondamentale: il segreto della libertà è radicato nel vivere secondo ragione. L’uomo, essere dotato di intelletto e volontà libera, non può esercitare adeguatamente la seconda se non sotto la guida del primo: la luce del vero, infatti, lo orienta verso il bene, al quale la volontà tende per sua stessa natura, così come per sua stessa natura l’intelletto tende alla verità. Dato che la verità è l’essere in quanto è conoscibile e il bene lo stesso essere in quanto è fruibile, un uso del libero arbitrio contrario alla verità non produce alcun bene e, di conseguenza, non dilata l’ambito della libertà umana ma, al contrario, lo restringe; esso non può arrecare la gioia e soddisfazione che il soggetto ne sperava, bensì tristezza e frustrazione.

Il testo biblico citato si riferisce proprio al consilium intellectus, indicato nel versetto precedente: è appunto la guida della ragione, che l’educazione paterna abilita al suo compito e sviluppa in vista del suo esercizio maturo. Sant’Antonio la vede però applicata, in particolare, alla virtù che fonda le altre e all’indispensabile pratica dell’ascesi: l’umiltà di cuore e la mortificazione degli appetiti sono anzitutto disposizioni ragionevoli che pure la saggezza umana riconosce utili, pur non avendo, nello stato di natura decaduta, i mezzi necessari per realizzarle in modo retto e compiuto. Ecco allora la necessità della grazia, che risana l’intimo dell’uomo e gli ridona sia la capacità di essere realmente umile, piuttosto che in apparenza, sia quella di mortificarsi con frutto, anziché per vanagloria. Caritas a fundamento humilitatis: già sant’Agostino si era reso conto che neanche la carità, anima e vincolo di tutte le virtù, è possibile a chi manca di autentica umiltà.

Malintesi morali e culto divino

Riecheggiando ancora l’Ipponate, il Nostro ne sviluppa il pensiero icasticamente espresso nel tanto celebre quanto frainteso Ama et quod vis fac (Ama e fa’ ciò che vuoi): «Se l’uomo si sottomette alla ragione, trova la grazia, diventa libero, ha la possibilità di andare dove vuole e di fare ciò che vuole. […] Al giusto non viene imposta la legge (cf. 1 Tm 1, 9), perché è lui stesso legge a sé medesimo (cf. Rm 2, 14). Ha infatti la carità, vive sottomesso alla ragione e, quindi, va dove vuole e fa ciò che vuole» (ibid.). La carità consiste nell’amare Dio per Se stesso, cioè come Sommo Bene per sua natura infinitamente amabile, e nell’amare il prossimo come sé stessi per amore di Dio; il suo esercizio, di conseguenza, presuppone necessariamente la libera sottomissione alla retta ragione, in quanto senza quest’ultima è impossibile riconoscere il bene e tendervi, cosa che impedisce altresì di cooperare con la grazia. Il giusto non ha più bisogno della legge perché, avendone interiorizzato le esigenze, spontaneamente la applica nel bene che il suo intelletto vede e la sua stessa volontà gli comanda.

Trasferendo il discorso in campo liturgico, non possiamo fare a meno di osservare fino a qual punto il rito tradizionale traduca meravigliosamente queste verità in riferimento al culto dovuto a Dio: la ragionevole ed esatta conformazione ai gesti e alle parole prescritte affranca il ministro da tutta una serie di costrizioni illegittime impostegli dalla necessità di “interpretare” e “animare” un rito privo di vita propria in quanto artificiale, costruito a tavolino con criteri, oltretutto, estranei. L’idea che la sua efficacia dipenda dall’originalità di chi lo esegue ingenera una vera e propria ossessione: il prete si trasforma così in intrattenitore e la Messa diventa uno spettacolo gratuito di basso livello e scarsa attrattività, malgrado tutti gli sforzi; ciò che è peggio, egli perde e fa completamente perdere di vista la vera natura e il vero significato di ciò che sta compiendo. L’insignificanza di un’azione già poco attraente per le sue modalità esecutive, a lungo andare, finisce col renderla insopportabile.

Nel rito antico, invece, il sacerdote sa di prestare la voce e le mani a Gesù Cristo e di doversi quindi limitare a compiere fedelmente quanto stabilito, senza inventare né modificare nemmeno il minimo dettaglio. Ciò non vuol dire, ovviamente, che debba agire come un automa privo di pensiero nonché di sensibilità; la consapevolezza di quel che fa, al contrario, mantiene la sua mente attenta al massimo grado di cui è capace e infiamma il suo cuore di appassionato amore per Colui che, tra le sue mani, torna a incarnarsi e immolarsi per gli uomini, a cominciare dal Suo ministro. Non esiste nulla di più sublime né di più liberante: lasciando che Dio si serva di lui per comunicare agli uomini i doni del Suo amore, egli si sente realizzato – come usa dire al giorno d’oggi – a un livello inimmaginabile da chiunque aspiri ad affermarsi mettendo in mostra le proprie qualità per ottenerne pubbliche lodi; siamo semplicemente in un altro mondo, quello della carità divina.

Vivificante mortificazione

Non è solo il sacerdote a sperimentare questa liberazione dall’io e dalle costrizioni di un’efficienza puramente orizzontale, quando lascia a Cristo il posto che Gli spetta, ma anche il popolo cristiano, non più tiranneggiato dal bisogno di attivismo, emotivismo e protagonismo, che nessuna esibizione può comunque soddisfare. Chi, dopo aver ascoltato e adorato col cuore pieno di fede e riverenza, si inginocchia alla balaustra per ricevere il Pane vivo come un bambino imboccato dalla mamma, non è ripiegato su esigenze soggettive indotte che prevalgano sulla realtà oggettiva del Sacramento, ma accoglie il crocifisso Redentore tutto dimentico di sé e proteso a Lui, in quanto rapito dallo stupore e dalla gratitudine suscitati da un incommensurabile quanto immeritato amore. Non c’è niente di più miserabile e blasfemo che, da peccatori quali siamo tutti, rivendicare diritti inesistenti nel ricevere il Dono in assoluto più grande e magnifico, come se il prenderlo con le proprie mani avesse maggiore importanza che l’accoglierlo in un’anima che sia almeno in stato di grazia…

La superbia e gli attaccamenti dell’io impediscono di godere della libertà che il Signore ha donato ai redenti e sono all’origine della tentazione, ricorrente nella storia dell’antico popolo eletto, di tornare in Egitto, preferendo i meschini vantaggi della schiavitù ai benefici della condizione libera (cf. Es 16, 2-3; Nm 14, 3-4; Ger 42, 14-15). La Provvidenza permette le prove proprio per purificare l’uomo dall’egoismo che lo asservisce e affrancarlo dalle catene del suo orgoglio; chi è centrato su di sé e tale vuol rimanere, tuttavia, le respinge stolidamente e vi si ribella, non presagendo le benevole intenzioni divine. Per questo la Chiesa ha sempre insegnato, almeno fino a qualche decennio fa, ad astenersi a intervalli anche dai godimenti leciti per restituire all’anima la sovranità sul corpo e rendere così alla persona la vera libertà e la vera vita, per le quali è fatta. Diversamente si vive contro natura, ossia in maniera contraria a quel che si è per costituzione; l’uomo è allora dominato da bisogni, godimenti e passioni della parte inferiore, che lo rendono schiavo e infelice.

Tutta la Tradizione, a cominciare dal rito della Messa, è una scuola di questa mortificazione capace di liberare e vivificare chi la pratica. È comprensibile che, per quanti ne sono del tutto digiuni, sia necessario un periodo più o meno lungo di adattamento e assimilazione: chi ha sempre camminato male non può mettersi subito a correre, benché sia in via di guarigione, così come chi non ha mai veduto con occhi sani si abitua solo gradualmente alla luce piena. Voler bruciare le tappe non porta buoni frutti, ma rischia di trasformare gli individui in fanatici che si sentono a posto per il solo fatto di aver cambiato rito o di aver adottato nuove abitudini, senza comprendere in profondità né l’uno né le altre e, di conseguenza, senza cambiare interiormente. Si è modificata soltanto l’esteriorità, mentre il cuore rimane ricolmo di superbia e di affetti carnali. Tornati, pur non volendo, alla stessa conclusione della volta scorsa, non possiamo fare altro che ribadire: che il Signore ce ne guardi.