La teologia del
moribondo
Emendemus in melius, quae ignoranter peccavimus: ne subito praeoccupati die
mortis, quaeramus spatium paenitentiae, et invenire non possimus
(dall’Ufficio
divino).
«Correggiamo
in meglio i peccati commessi per ignoranza, affinché, sorpresi all’improvviso dal
giorno della morte, non cerchiamo il tempo di far penitenza senza poterlo
trovare». Così la liturgia tradizionale ci esorta in questo periodo della
Quaresima. È un richiamo di vitale importanza. Ogni uomo ignora del tutto il
momento della propria morte, quando agli occhi dell’anima, che vedrà aprirsi
innanzi a sé l’eternità, si svelerà il vero valore di ogni singolo atto
compiuto durante la vita terrena. Allora, nella piena luce della perfetta verità
ed eccelsa santità di Dio, non più velate allo sguardo della creatura, la
subitanea presa di coscienza sarà terribile per chi sarà vissuto lontano da Lui
e in modo contrario alla Sua volontà. Il desiderio di riparare le proprie
colpe, che appariranno in tutta la loro gravità, si scontrerà inesorabilmente
con la mancanza di tempo per l’imminenza del trapasso. I demoni accerchieranno
la povera anima per indurla alla disperazione e, a meno di una grazia
particolare ottenuta in passato o da qualcun altro, ci riusciranno.
Questa
preziosa testimonianza della lex orandi include, come oggetto
dello sforzo penitenziale, anche le colpe commesse per ignoranza. Questo
potrebbe sorprendere chi sa che il peccato richiede la piena avvertenza e il
deliberato consenso. Indubbiamente essi sono necessari perché ci sia un peccato
in senso formale, cioè una disobbedienza a Dio consapevole e volontaria; in
mancanza, tuttavia, si ha comunque un peccato materiale, perché si è compiuto
il male e si è violato l’ordine divino del mondo. Nell’attuale situazione culturale
e religiosa (che ho ultimamente rievocato) di frequente ignoranza pressoché
totale dei Comandamenti divini e della loro applicazione, questa eventualità
si verifica, probabilmente, abbastanza spesso. Ma, ammesso che certe persone non perdano
lo stato di grazia per il semplice fatto che non si rendono minimamente conto di peccare in materia grave, ciò non le scusa necessariamente del tutto,
perché l’ignoranza non sempre è incolpevole: ogni essere umano, essendo dotato
di coscienza, ha l’obbligo di cercare la verità e, nella misura in cui può
conoscerla, di osservarla nei suoi atti.
Oggi,
tuttavia, i dettami della coscienza sono stati talmente oscurati dalla “cultura”
dominante e dalla “catechesi” rinnovata che in molti casi l’ignoranza pare
effettivamente non imputabile e, con essa, i peccati commessi di conseguenza. Dobbiamo
per questo lasciare la gente nell’oscurità e limitarci a giustificare i loro
comportamenti? Ma questa non è carità: quelle persone, molto spesso, vivono in
disordini gravi dal punto di vista morale. Ciò non è certo un bene per loro e,
quand’anche non abbiano perso lo stato di grazia, è un ostacolo all’azione
della grazia stessa, che non può agire per distoglierli dal male in cui sono
immersi, in quanto non trova la minima collaborazione. E poi, come possiamo
esser sicuri che non commettano peccato mortale in senso formale? Vediamo forse
nella loro coscienza? Vogliamo metterci al posto di Dio? Il nostro compito di
cristiani – specie se sacerdoti – è quello di strappare le anime al demonio,
non quello di avallare la loro condotta sostenendo che non è ipoteticamente imputabile.
Se un peccatore, per morte improvvisa, si ritrova di colpo dall’altra parte,
viene immediatamente a conoscenza di ciò che avremmo dovuto dirgli noi. Quante
anime del Purgatorio rimpiangono amaramente di non essere state adeguatamente
istruite e avvertite in tempo da chi pur aveva questo compito…
Stare
al capezzale di un moribondo è estremamente istruttivo; è una delle esperienze
più fruttuose – per quanto sconvolgente – del ministero sacerdotale. Là non ci
sono più scuse, sottigliezze, disquisizioni… ma solo il giudizio. Là si impara
la vera teologia. Certo, Dio è Padre misericordioso, ma al contempo infinitamente
santo e giusto. Allo schiudersi della visione, la Sua gloria sublime irradia un’irresistibile
luce su ogni più piccolo dettaglio dell’esistenza, che in un attimo scorre
davanti agli occhi dell’anima in agonia. Essa coglie così, in un angoscioso
sussulto, la propria tremenda responsabilità di creatura dotata di coscienza e
libero arbitrio: l’aver lasciato che la prima si atrofizzasse e usato così male
il secondo non trova alcuna giustificazione, se non quella fornita, magari,
proprio da un prete, che in quel momento è quasi certamente latitante. Forse
sta preparando lo spettacolo della domenica seguente o, semplicemente, sta navigando
su Internet; ma i moribondi non li accompagna di certo:
nessuno, del resto, gliel’ha insegnato, mentre le struggenti e solenni
preghiere di raccomandazione dell’anima sono state abolite… tanto si salvan
tutti. Al massimo, si farà vivo per dare una spruzzata al cadavere, quando ormai
servirà a ben poco.
Che
cosa ha imparato, d’altra parte, quel povero prete (che ero anch’io finché, per
un’immeritata quanto inestimabile grazia, non sono tornato alla fonte)? La
teologia che ha studiato non gli serve a nulla per procurare la salvezza alle
anime affidate alle sue cure. In essa era tutto un problema, una discussione,
un’analisi critica… La verità perenne era ridotta a sviluppo del dogma, la
legge divina a evoluzione della coscienza ecclesiale; gli autori sacri e i
Padri della Chiesa (grazie alla “riscoperta” della Scrittura e alla “rinascita”
patristica) erano messi sullo stesso piano di qualunque scrittore, cristiano o
meno, ortodosso o eretico, in una serie indifferenziata di “fonti” che parevano
tutte dotate della stessa autorità… Prima di arrivare a un’affermazione un po’
meno incerta o condizionata bisognava farsi sfiancare da estenuanti
ricostruzioni storiche, che lasciavano in piedi solo qualche rudere delle poche
cognizioni di fede che uno aveva acquisito in precedenza… Concetti chiari e
definiti erano aborriti come esecrabile retaggio della teologia manualistica
neoscolastica… che orrore!
È
per questo che, oggi, se un fedele pone al parroco un semplice quesito di fede
o di morale, deve sperare che non abbia tempo o voglia, perché corre il forte
rischio di ricevere una risposta erronea o, nel migliore dei casi, di
imbarcarsi in un’interminabile disamina che lo lascerà con le idee più confuse
di prima. Se poi, per uscire dalle nebbie, ricorrerà al “magistero”
contemporaneo, incapperà in scogli capaci di farlo naufragare. Se risalirà al
Magistero recente, dovrà prenderlo con le molle, per evitare di attribuire all’esperienza
personale dell’uomo un peso eccessivo rispetto all’oggettiva legge di Dio o di
considerare Lui stesso la migliore delle ipotesi, piuttosto che una realtà
evidente alla retta ragione… Alla fine, per non vedersi obbligato allo sforzo
di filtrare i testi con cognizioni insufficienti, gli converrà saltare indietro
di almeno sessant’anni e, con grande sollievo, ritroverà un’atmosfera respirabile
senza precauzioni, non ancora inquinata dai miasmi dell’idealismo tedesco, dell’esistenzialismo
cristianizzato e di un personalismo andato un po’ troppo lontano. Se invece
vuol prendere la via direttissima, pensi agli estremi istanti. Un’efficacissima
regola di discernimento, indicata da sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi, è la seguente: decidere quello
che desidererò aver deciso quando sarò in punto di morte. Rispetto alla teologia
di una Chiesa moribonda, la teologia del moribondo è molto meglio, senza
paragone.